C’era una volta la Sicilia dei mestieri. Sembra l’inizio di una favola, ma non è così. Perché la Sicilia dei nostri nonni era fatta di mani ruvide e voci forti, di sudore e di poesia, di botteghe e marciapiedi trasformati in laboratori a cielo aperto.

Oggi quei mestieri non esistono più, per fortuna direbbe qualcuno. Sono stati soppiantati dalla modernità, dal consumo rapido, dalle grandi catene di distribuzione. Ma è innegabile che oggi questi maestri invisibili del quotidiano potrebbero rendere un servizio alla comunità come ‘U scarparu, il calzolaio, che non era un semplice artigiano. Era il chirurgo della scarpa. Le sue mani annerite di lucido sapevano ridare vita alle scarpe rotte o consumate.

In un’epoca in cui le pentole si rompevano ma non si buttavano c’era ‘U stagnataru. Sistemava pentole, aggiustava latte, rimetteva a nuovo stoviglie che oggi finiscono dritte nella spazzatura.

Poi c’era ‘u carrittieri, il trasportatore col carretto, solitamente trainato da un mulo decorato con specchietti, nastrini e santini. Faceva un po’ di tutto, il traslocatore, l’ambulante, il postino. Era una sorta di Uber del passato.

L’arte di cesellare il rame era appannaggio del ‘U quadararu. Riparava paioli, pentole di rame e d’alluminio, lucidandole e raddrizzandole quando si ammaccavano. Usava martelli, stagno, lime, spazzole di ferro. Spesso lavorava per strada o in piccoli laboratori pieni di fuliggine e odore di metallo bruciato.

‘U conza l’ummira” o conciambrelle, era un ombrellaio ambulante. Raddrizzava le stecche spezzate, rimpiazzava il manico o altre parti rovinate con attrezzi portatili e rattoppava la tela. Oggi con gli ombrelli usa e getta è una figura ormai estinta.

U lustrascarpi (il lustrascarpe) era una figura comunissima fino agli anni ’70 e ’80, presente ovunque: davanti agli hotel, ai caffè importanti, alle stazioni, agli ingressi degli uffici pubblici. A Palermo si trovava in via Roma, piazza Politeama, piazza Verdi, ma anche al Foro Italico, davanti alla Stazione Centrale, e all’incrocio tra via Maqueda e corso Vittorio.

Era un mestiere spesso esercitato da ragazzini dei quartieri popolari, o da uomini anziani che cercavano di “arrangiarsi”. Portavano con sé una cassettina di legno, a volte autocostruita, con il poggiapiede sopra, e dentro tutto il necessario: spazzole, stracci, crema nera e marrone, lucido a cera. U lustrascarpi era il simbolo di un lavoro povero, umile, faticoso e spesso improvvisato. Ma era anche un mestiere dignitoso, che rappresentava quella parte di società che cercava di sopravvivere con ingegno e orgoglio.

Poi c’era ‘u scrivanu, detto anche scribacchino. Di solito era un ex impiegato, con una bella calligrafia e molta pazienza, che scriveva lettere, compilava moduli, redigeva petizioni, tacitazioni, denunce, biglietti d’amore per chi non sapeva scrivere. Lavorava all’aperto o in bancherelle leggere, collocate vicino ai municipi o nei mercati. A partire dagli anni ’60, questo mestiere iniziò a scomparire sia per l’aumento dell’alfabetizzazione, sia per la diffusione della burocrazia formale,

A Palermo, fino agli anni ’60 e ’70, era diffusissimo il gelataio ambulante, riconoscibile per il suo carrettino con tre pozzetti refrigerati e l’immancabile fischietto. Era un rito estivo che univa grande semplicità e grande gioia. I bambini che lo attendevano con ansia, impazzivano per la “sciallotta”, una mattonella di gelato artigianale racchiusa tra due wafer.

Oggi tutto è più veloce, più comodo, più impersonale. I mestieri scompaiono, ma lasciano dietro storie di gesti antichi. Ricordare questi mestieri non è solo nostalgia. È un dovere di memoria per un tempo dove ogni mestiere era un’arte ed ogni artista aveva un nome che suonava come una poesia.