Lavoro all’Upper Cut da qualche mese. Verso l’inizio del mese di dicembre, George fece una riunione con tutto il personale. “Si tratta di una serie di concerti rock – disse il boss mostrando una locandina – cominciamo il 21 dicembre”.

Lavoro all’Upper Cut da qualche mese. Stavo cercando lavoro e Geoffrey, il mio vicino di casa, mi presentò un suo amico. Si trattava di Billy Walker, il pugile campione locale dei Pesi Massimi che viveva un periodo fortunato: molta fama e molto denaro. Assieme al fratello

George, aveva speso più di 200.000 sterline per trasformare l’ex pista di pattinaggio che c’era in Woodgrange Road, in un grande club. Proprio nei giorni scorsi la stampa l’aveva definito un “palazzo lussuoso”, visto il suo regale aspetto. Un grande ingresso centrale, due grandi finestre laterali e, al primo piano cinque monofore, che permettono alla luce naturale di entrare. Inizialmente il club doveva aprire quattro sere a settimana, ospite fisso Walker, oltre a Freddie Mack e il suo gruppo, come band residente.

Verso l’inizio del mese di dicembre, George fece una riunione con tutto il personale. “Si tratta di una serie di concerti rock – disse il boss mostrando una locandina – cominciamo il 21 dicembre”. L’impegno sarebbe cresciuto. In quel momento, oltre a stare al bar durante la serata, mi occupavo anche delle pulizie pomeridiane. Arrivavo verso le quattro del pomeriggio, assieme a Bruce, un ragazzo scozzese tutto muscoli. Un valido supporto durante le pulizie ma, con lui, non si poteva parlare di musica. Ascoltava solo quella tradizionale scozzese. Cornamuse, nient’altro che cornamuse. Fischiettava spesso un motivo che, col tempo, era diventato fastidioso. Si trattava di “Scotland the Brave”, l’inno non ufficiale scozzese. Sarebbe come se io fischiettassi regolarmente “God save the Queen”. Potrei farlo se ne esistesse una versione blues, oppure se ne esistesse una versione rock. A Bruce il blues non piaceva. Nemmeno il rock. I concerti erano iniziati giovedì scorso. Maggior lavoro durante la serata al bar e maggior lavoro nel pomeriggio, per le pulizie. Bruce sbuffava. Il boss aveva voluto tutti, per il concerto d’inaugurazione, anche i dipendenti che non lavoravano la sera. C’era Bruce, il signor Warkill, la signorina Curtis e sua sorella Molly. Il concerto dei Who fu, a mio modestissimo parere, memorabile. Peter Townsend usava la chitarra come una prolunga della sua mano. Più volte il boss, durante la serata, mi scoprì mentre ascoltavo incantato il concerto anziché servire alcool ai clienti. Avevo parlato con Townsend nel pomeriggio, dopo le prove. Mi aveva fatto vedere la sua chitarra. Era una Gibson Les Paul nera, lucida come se fosse stata costruita in quell’istante. Nei giorni successivi si erano esibiti The Easybeats, Dave Dee, Dozy, Beaky e Mick&Tich. Poi era stata la volta di Eric Burdon con gli Animals. Ieri era Natale. L’Upper Cut è rimasto chiuso e io ho passato la giornata in famiglia. Verso le cinque del pomeriggio il boss mi aveva telefonato per chiedermi di anticipare l’orario di apertura perché la band sarebbe arrivata per le 16. Quando arrivai davanti all’Upper Cut, erano da poco suonate le tredici. Bruce mi aspettava davanti all’ingresso. Iniziammo pulendo il palco. Dopo poco meno di mezz’ora, la voce di Hendrix arrivò alle nostre spalle. “E’ presto, lo so. Avrei bisogno di mettermi in un angolo per provare un pò”. Jimi si mise in fondo alla sala. Aprì la custodia della sua chitarra e cominciò a suonare. Le sue mani si muovevano velocemente. Era mancino, ma impugnava una chitarra destrorsa, con le corde montate al contrario. Una decina di giorni prima era uscito “Hey Joe”, il suo singolo e tutta Londra ne parlava. Il palco era in ordine e, mentre Bruce passò alla pulizia dei bagni, io cominciai a sistemare il bar. Jimi stava suonando. Mi avvicinai a lui e mi misi a sedere. Lui smise di suonare e mi guardò. Suonò un gruppo di note molto velocemente. “Ti piace?” Non feci in tempo a rispondere perché il mio sguardo era caduto sulla sua chitarra. Era logora, opaca. “E’ molto ruvida. Però mi piace”. Le parole mi uscirono dalla bocca senza che io me ne rendessi conto “Ruvida? Non ho mai sentito usare questa parola per descrivere un riff di chitarra”. Il mio sguardo era ancora incollato alla sua Stratocaster. “Parlavo della tua chitarra. È molto rovinata”. Jimi si tolse la chitarra di dosso e me la porse. Quando la toccai, un brivido corse lungo la mia spina dorsale. Jimi mi chiese della carta per scrivere. Posai con delicatezza la chitarra e gli portai un gruppo di fogli bianchi. Cominciò a scrivere, mentre io cominciai a sistemare le bottiglie del grande scaffale alle spalle del bancone del bar. Prese la chitarra.

“Purple haze, all in my brain
Lately things they don’t seem the same
Actin’ funny, but I don’t know why
Excuse me while I kiss the sky”

Jimi scriveva, poi alzava lo sguardo e cantava la strofa successiva.

“Purple haze all in my eyes
Don’t know if it’s day or night
You got me blowin’, blowin’ my mind
Is it tomorrow, or just the end of time?”

Avevo terminato di sistemare il bar. Mi avvicinai a Jimi che mi fece vedere un foglio sul quale, con una calligrafia al limite del comprensibile, c’era scritto il testo di quella nuova canzone. “Purple Haze”. Lo guardai con aria interrogativa. “Questo sarà il suo titolo, Purple Haze”. Le porte dell’Upper Cut si aprirono. Due grandi carrelli entrarono portando gli amplificatori da chitarra di Jimi. Poco dopo arrivò la band che suonava con lui, The Experience e iniziarono le prove. Non riuscii ad ascoltarle, perché il boss mi mandò con il furgone a rinforzare la scorta di alcolici. Rientrai all’Upper Cut che erano quasi le 19. Trovai Jimi in mezzo alla sala che mi aspettava. Aveva in mano la sua chitarra. Mi guardò. “Hai detto che è sporca. Ci puoi fare qualcosa?”. “I’ll clean it up, Jimi, dont’ worry” fu la mia risposta. Presi delicatamente la chitarra di Jimi, la posai su un grosso panno verde e comincia a pulirla. Usai un polish che utilizzavo per le cromature della macchina del caffè. Passaggio dopo passaggio, la chitarra cominciò a perdere la patina opaca che la ricopriva e il suo color “White Pearl” comiciava a risplendere. Dopo qualche minuto, andai nello spogliatoio e consegnai la chitarra a Jimi. Quella sera, oltre a Jimi Hendrix e alla sua Stratocaster, salirono sul palco “Mitch” Mitchell alla batteria e Noel Redding al basso. Alzai lo sguardo verso il palco nel momento in cui si accendevano le luci. La chitarra era lucida e risplendeva. Il concerto fu un’esplosione di blues. La chitarra di Hendrix cavalcò con piglio sicuro “Hey Joe” regalandoci una versione unica. Jimi alzò la chitarra verso la bocca e cominciò a suonare “strappando” le corde con i denti. Come tutti i concerti, arrivò il momento della fine. Hendrix, Mitch e Noel tornarono sul palco. Jimi si avvicinò al microfono “For you, Albert…”. Guardò verso di me. Le sue mani toccarono la tastiera della chitarra e le note di “Hey Joe” riempirono di nuovo l’Upper Cut, mandando ancora una volta il pubblico in delirio. La serata è terminata. Io sono in piedi dietro al bancone del bar. Ho cominciato a lavare i bicchieri, ne avrò per qualche ora. La gente si sta avviando verso l’uscita. Qualcuno passa di fianco al bar e mi guarda, con aria interrogativa. Sì, sono io Albert. Lavoro come barman all’Upper Cut in Woodgrange Road, a Londra.

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